Un nuovo inizio: il Lettore Incallito

Sono di nuovo qui, a distanza oramai di qualche anno purtroppo in cui per varie ragioni non ho piu’ aggiornato questa pagina.

Ho deciso di tornare oggi per informarvi che questo sara’ a tutti gli effetti il mio ultimo post: non perche’ abbia abbandonato il mio interesse per la scrittura ma perche’ ho deciso di coltivare questa mia passione andando a costruire qualcosa di nuovo coniugandola con un altro mio grandissimo interesse.

Riparto da capo con una nuova pagina “Il Lettore Incallito“, in cui  raccontero’ in modo ironico e onesto spero la mia passione per la lettura.

In questi giorni sono stati pubblicati i dati Ocse-Pisa da cui e’ emerso che appena il 5% degli studenti italiani di 15 anni è capace di distinguere in un testo tra fatti e opinioni: questo vuol dire che il 95% di loro non sa leggere nel senso vero del termine! Siamo di fronte ad una vera emergenza!

Tutto questo e’ impressionante se penso invece a quanto e’ bello immergersi nella realta’ di un romanzo: ho deciso quindi di provare a dare il mio contributo e raccontarvi perche’ leggere sia cosi’ bello.

Se vi va andate a dargli una occhiata e fatemi sapere cosa ne pensate!

Un saluto e grazie!

Quo Vado: il film che ti fa applaudire al cinema

Lo saprete certamente tutti, lo scorso 1 Gennaio è uscito nelle sale italiane l’ultimo film di Checco Zalone: “Quo Vado“.
Già durante la prima giornata di proiezione ha toccato l’incredibile quota di un milione di biglietti venduti e circa 7 milioni di euro d’incassi: evidentemente molti italiani nutrivamo una grande aspettativa per questo film, non pensate?
Ebbene, non solo questa aspettativa è stata totalmente rispettata, ma personalmente penso che questo film possa diventare il manifesto di che cosa voglia dire e di che potere abbia la comicità oggi.
Non sono un critico cinematografico e non ho alcuna intenzione di rovinarvi il film raccontandovi di cosa tratta ma scrivo questo articolo partendo da una domanda: “vi è mai capitato di vedere decine e decine di persone attorno a voi iniziare applausi spontanei e ridere a crepapelle mentre sono al cinema?
A me sinceramente no.
Tornato a casa ero così gasato che ho invitato tutta la mia famiglia ed i miei amici ad andarlo a vedere.
Perché l’ho fatto?!
Dopotutto non sono mica il produttore di Zalone, non ho alcun interesse a pubblicizzarlo, eppure questa voglia c’era.
Allora ci ho pensato su e ora posso dirvi perché penso valga la pena vedere questo film:

Questo film va visto perché fa cazzo ridere;
Questo film va visto perché permette a tutti di vedere di persona cosa un genio sia in grado di fare;
Questo film va visto perché la scena con la frase “sto facendo una pugnetta all’orso polare” ti fa cadere dalla sedia;
Questo film va visto perché per far ridere davvero bisogna essere capaci di guardare le cose che ti circondano (dal pranzo in famiglia fino al jobs act, alla depressione, ai problemi climatici, alla mancanza di cure in Africa, alla malavita e alla corruzione del nostro paese: tutti temi toccati dal film) con un occhio capace di cogliere la verità di ciò che si sta guardando;
Questo film va visto perché si capisce che chi lo ha fatto si è divertito un sacco a lavorarci su;
Questo film va visto perché non è politically correct: sembrerebbe impossibile ma in due ore di risate Checco ha scherzato su integrazione, islamici, politica, atei, omosessuali, curia romana, mafia e sul ruolo di maschi e femmine;
Questo film va visto perché mostra come sia sempre possibile ripartire;
Questo film va visto perché non è volgare;
Questo film va visto perché Zalone fa capire che c’è qualcosa di positivo in ogni situazione ci si trovi a vivere: anche gli spaghetti pomodoro e krill possono diventare una figata!
Questo film va visto perché dimostra che razza di potere abbia la famiglia;
Questo film va visto perché ridere infonde alle persone molta più fiducia e ottimismo di qualche tweet con scritto #ItaliaRiparte;
Questo film va visto perché dimostra che anche in Italia e per la politica c’è futuro;
Questo film va visto perché dice ai giovani che non devono solo lamentarsi e urlare vaffanculo quando le cose non vanno ma fa venire voglia di “prendersi le palle con due mani” e darsi da fare!
Questo film va visto perché parla dell’Italia e degli italiani e, tra mille risate, mostra come la medicina per uscire dalla crisi non la dia qualcuno all’infuori di noi (la politica, lo stato, il posto fisso, un retaggio familiare) ma sia un frutto di una personale affermazione nella vita quotidiana della propria libertà e della propria responsabilità (“mizze che frase che ho sparato oh”)!
Questo film va visto perché quando senti il medico africano esclamare stupito “What the hell?!” e vedi commuoversi la dirigente statale tocchi con mano che effetto rivoluzionario possa avere un gesto di carità;

In poche parole questo film va visto perché Zalone col talento che ha poteva far ridere l’Italia dicendo culo e tette ogni tanto come fanno molti dei suoi colleghi e invece ha scelto, “non per compassione, non per commozione ma per educazione“, di farci anche pensare…

E poi…so che l’ho già detto per cui scusate ma…

Questo film va visto perché fa cazzo ridere!

Lo stagista inaspettato e la dignità del lavorare

Non vincerà certamente un Oscar e difficilmente passerà alla storia del cinema ma “Lo Stagista Inaspettato”,  commedia diretta da Nancy Meyers con attori del calibro di Robert de Niro (Ben Whittaker) e Anne Hateway (Jules), racconta e ironizza su un tema, il lavoro e il rapporto capo-dipendente, in maniera decisamente sorprendente e efficace.

Chi di noi infatti, durante le sue giornate lavorative in ufficio, riesce a non lamentarsi se il suo capo non gli dà abbastanza responsabilità o non gli dedica le attenzioni che pensa di meritare?!

Chi di noi, durante le sue giornate lavorative in ufficio, ha in mente che, qualsiasi attività abbia da fare, semplice o stimolante che sia, essa è comunque funzionale al raggiungimento di uno scopo?! 

Chi di noi, durante le sue giornate lavorative in ufficio, si prende a cuore i problemi e le difficoltà dei colleghi che gli stanno attorno?!

Chi di noi, durante le sue giornate lavorative in ufficio, quando vede il suo capo affaticato o preoccupato, lo supporta semplicemente stando con lui di fronte alle problematiche quotidiane?!

Chi di noi, durante le sue giornate lavorative in ufficio, pensa di poter contribuire attivamente al miglioramento dell’azienda e non lascia questo obiettivo solo ai suoi manager di turno?!

Chi di noi, durante le sue giornate lavorative, percepisce la grande dignità che l’atto del lavorare in sè contiene?!

Chi di noi, durante le sue giornate lavorative in ufficio, riconosce e valorizza i talenti e le qualità di chi ha attorno invece di tentare in ogni modo di apparire migliore di loro?!

Ben Whittaker, settantenne pensionato che viene assunto come stagista in una emergente società online nel settore della moda diretta e fondata dalla bella Jules, mostra come persino uno stagista possa permettere la crescita e il miglioramento dell’azienda in cui lavora.

Ad essere sorprendete è però la modalità in cui questo obiettivo viene raggiunto: Ben infatti non sa praticamente nulla di computer o di negozi online ma, grazie a tutta la sua esperienza di vita, è in grado di guardare alla sua realtà lavorativa e a chi gli sta incontro con un occhio diverso rispetto ai suoi più giovani colleghi. In tal modo, sebbene inizialmente non gli dessero nulla da fare, grazie al suo occhio attento è riuscito ad esaltare le qualità e i talenti di chi gli stava attorno al punto tale da creare un clima di ufficio di reale amicizia, con le ovvie conseguenze di miglioramento delle performance che ne è conseguito. 

Tutto ciò ci porta a riflettere su quanto il lavoro ci nobiliti e ci permetta di sentirci utili ed importanti.

Bella infatti l’idea di usare come protagonista un uomo che il mondo di oggi pare ritenere inutile perché troppo anziano e lento…quanti uomini e quante donne, dopo tanti anni di lavoro e dopo essere diventati dannatamente bravi a farlo, vengono messi da parte perché giudicati inutili? Con quanta facilità la società che ci circonda, senza troppi ringraziamenti per il contributo apportato in passato da questi uomini e da queste donne, li mette da parte invitandoli a starsene a casa? 

Chi scrive ha da poco iniziato a lavorare e trova decisivo per le aziende di oggi che giovani e uomini e donne con più esperienza imparino a convivere tra loro. In questo modo, mixando l’energia e le idee dei primi, con l’esperienza e la serenità imparate da una vita in trincea di fronte ai problemi di ogni giorno dei secondi, vi é la reale possibilità che le società crescano. Ma ancora di più si può evitare che i giovani dilapidino le conquiste di chi li ha preceduti, facendo così in modo che imparino da loro non solo le competenze ma anche come approcciarsi ai problemi, mentre, allo stesso tempo, i più anziani si vedano trattati non più come un inutile peso della società ma sentano la responsabilità di formare le nuove generazioni.

Che una simpatica commedia di un paio d’ore tocchi tutte queste tematiche e susciti queste reazioni la rende certamente meritevole di essere vista non pensate?!

Inception – il finale secondo Nolan: la realtà non è il cugino povero dei sogni!

Quando Inception è uscito nelle sale cinematografiche di tutto il mondo nel 2010, in parallelo all’incredibile successo ottenuto dalla pellicola, in ogni persona ad aver visto il film è sorta spontanea la domanda sul significato reale che il regista, Cristopher Nolan, ha voluto dare alla sua storia. Per chi non avesse visto il film innanzitutto il primo consiglio è certamente quello di andare a vederlo.
Chi lo ha visto invece ricorderà che la pellicola si conclude con una trottola al centro della scena che gira lasciando il telespettatore nell’incertezza se questa cadrà o meno. La questione è decisiva perché, nel primo caso, il protagonista, interpretato da Leonardo di Caprio, si troverebbe nella realtà vera. In caso contrario si troverebbe invece in un sogno, e rischierebbe di restarci intrappolato. Il solo elemento in grado di farci capire dove siamo è la trottola.
Christopher Nolan qualche giorno fa ha tenuto un discorso di commiato rivolto ai laureati di Princeton in cui, per la prima volta dall’uscita del film, ha dato una sua interpretazione di quel misterioso finale:
«Nella tradizione dei discorsi solitamente si fa un gran parlare del dover inseguire i propri sogni, ma io non voglio puntare su quest’aspetto, perché non ci credo. Io voglio che voi inseguiate la vostra realtà. È evidente da diverso tempo che la realtà è vista come un cugino povero dei sogni. Ma io voglio che voi vi rendiate conto che i nostri sogni, le astrazioni con cui ci divertiamo e di cui ci circondiamo sono dei sottoinsiemi della realtà. Il modo in cui il film finisce, il momento in cui il personaggio di Leonardo DiCaprio, Cobb, — si riunisce ai suoi bambini, corrisponde alla sua realtà soggettiva. Non se ne preoccupa più, e questo porta a un assunto: forse tutti i livelli di realtà sono validi. La macchina da presa si sposta sulla trottola che gira e prima che si fermi lo schermo va al nero. Quel punto interessa tantissimo gli spettatori in termini assoluti: anche se mentre guardo il film so che è finzione e quindi una sorta di realtà virtuale. Ma la domanda se la scena finale sia un sogno o sia vera è la domanda che mi è stata posta più che su qualsiasi altro film io abbia fatto. È la cosa che mi si chiede di più e che interessa di più perché riguarda la realtà. È la realtà quello che conta».
Personalmente ho trovato straordinario questo discorso di Nolan perché oggi pare che per essere contenti a questo mondo l’unico modo sia di immaginarci in un luogo diverso e più bello, come in un sogno dunque: sono rarissimi infatti i casi in cui riconosciamo che quanto abbiamo davanti sia sufficiente per essere realmente felici.
Incredibile che, non da un capo di stato o da un sommo esponente religioso, arrivi un cosi forte e, a dirla tutta anche desiderabile, richiamo sul valore della realtà che il regista descrive non come il cugino povero dei sogni ma come se in essa ci sia già tutto per essere contenti.
Per usare sue parole, se vogliamo stare bene, è la realtà quello che conta!
A questo punto, visto che lui non è un politico e neppure un prete, forse siamo tutti più liberi di verificare se ha ragione!

Che finale Fast & Furious!

Era lecito attendersi che “Fast and Furious 7” sbancasse i botteghini e conquistasse il pubblico in Italia e nel mondo. Che il settimo film della serie con Vin Diesel attirasse in sala frotte di spettatori, molti dei quali desiderosi di vedere sul grande schermo, per l’ultima volta, Paul Walker nel ruolo di Brian O’Conner, era infatti assolutamente prevedibile.

Guardando il film poi, da un certo punto di vista sembra quasi non sia cambiato niente rispetto ai capitoli precedenti della saga: forza bruta muscolare, donne dalla bellezza sconvolgente, auto che compiono inverosimili acrobazie (come saltare da un grattacielo all’altro), velocità esasperata e rischio, il tutto tenuto insieme da una grande amicizia e dalla volontà di tenere sempre unita e al primo posto la famiglia.

Parallelamente a questo, tutto il film è però guidato dal desiderio, da parte degli attori e del regista, di dare un degno finale a quello che realmente era diventato un loro amico. Per questo il ragione tutta la pellicola diventa un lungo saluto al personaggio interpretato da Paul Walker.

Ad essere sincero quando sono entrato al cinema per vedere questo film mi aspettavo, con sincera curiosità, di vedere come il regista lo avrebbe fatto morire, dando per certo che questo sarebbe avvenuto:
Sarebbe stato inscenato un incidente fragoroso?
Sarebbe morto salvando eroicamente sua moglie o suo figlio?
Sarebbe ignorato il fatto lungo lo sviluppo della trama e solamente alla fine ci sarebbe stato un saluto all’attore scomparso?

Con sorpresa invece il finale invece è stato questo:

Sconfitto il cattivo di turno infatti, tutti i protagonisti del film si ritrovano insieme in spiaggia e interrompono i loro discorsi quando, commossi ma non disperati, osservano Brian lontano giocare con suo figlio e sua moglie dicendo semplicemente che quello è il suo posto, e non con loro.
Subito dopo Toretto e O’Conner, amici nella saga quanto nella vita si ritrovano a guidare affiancati lungo un’autostrada in mezzo al deserto. Ed è lì che, con una ripresa aerea particolarmente toccante e con la splendida e dolce colonna sonora scritta da Wiz Khalifa ad accompagnare la scena, O’Conner prende l’uscita a sottolineare come le strade dei due protagonisti si stiano solo temporaneamente separando.

È oggettivamente raro e significativo il modo con cui alcuni uomini (non importa se sono attori famosissimi, innanzitutto sono uomini) hanno deciso di stare di fronte al fatto di un loro amico che non c’è più.
A dominare non è né la nostalgia o l’amarcord per i momenti vissuti insieme, cosi come non lo è neppure la rabbia per il drammatico evento accaduto. Con tutta la tristezza del caso infatti, i protagonisti salutano Paul e paiono più di ogni altra cosa contenti e grati di aver avuto l’opportunità di conoscerlo. Lo sembrano a tal punto che il saluto finale, non solo contiene la speranza, ma ha dentro la certezza che la storia, per il loro amico che non c’è più, non sia finita ma sia solo “cambiata”.
È questo clima, magistralmente creato dagli attori e dal regista, che rende vera e non moralistica la battuta finale di Vin Diesel rivolta all’amico Paul: «Non importa dove sei, se a un quarto di miglio o dall’altra parte del mondo, tu sarai sempre con me e sarai sempre mio fratello».

Spot Wind festa del papà: per comunicare davvero, a volte la tecnologia non è tutto

Il progresso, la tecnologia, la velocità, la “connessione”. Sono queste icone indispensabili e imprescindibili della realtà contemporanea in cui viviamo.
La tecnologia è arrivata a un punto tale da rendersi capace di scandire quasi ogni minuto della nostra giornata.
Ma tutto questo è veramente un aiuto a vivere le nostre giornate?
Ci aiuta a comunicare noi stessi e a capire di più gli altri?
Non si tratta di un tema di poco conto ed è facile diventare “moralistoni” nel parlarne ma è oggettivamente vero che stiamo diventando più bravi a comunicare con gli hashtag che usando le parole.
Porre questi temi al centro di un messaggio pubblicitario, specialmente proposto da un’azienda di telecomunicazioni, sembra quasi un controsenso ed è qualcosa che in me ha suscitato interesse e curiosità.
E’ questo infatti che ha fatto Wind per la sua nuova campagna istituzionale. Il risultato è qualcosa di veramente nuovo e affascinante. Ciò di cui sto parlando è “Papà”, un “cortometraggio” di Giuseppe Capotondi (https://www.youtube.com/watch?v=JSWDo95hNR0). Quattro minuti tutti da vedere. Capaci di rivelare anche al più scettico qualcosa di nuovo e interessante: non “il comunicare” per il semplice gusto di farlo ma comunicare perché ciò è un’irriducibile esigenza del cuore umano.
La storia è molto semplice e comune, una di quelle in cui tanti forse potrebbero rivedersi: quella di un figlio che non rivede suo padre da molto tempo e che, in un continuo flash-back della sua infanzia, si rivede nei luoghi che ne hanno caratterizzato la crescita, e decide “ri-comunicare” con lui.
Per farlo, non sceglie la tecnologia, ma torna a casa.
“Per comunicare davvero, a volte la tecnologia non è tutto”: il finale del video è da questo punto di vista assai significativo e centra il punto della questione. C’è tutto dei tempi moderni in questi 4 minuti di video: il rapporto genitori-figli, l’invadenza della tecnologia, il bisogno di incontrarsi e di parlare, la bellezza (rappresentata dai luoghi in cui è ambientato il filmato).
Alcuni potrebbero dire che si tratta di una semplice strategia commerciale di Wind per ottenere più clienti…beh anche se cosi fosse, l’idea di spendersi per descrivere i rischi di un uso esagerato della tecnologia quando loro invece, come azienda di telecomunicazioni ci guadagnerebbero se le persone la usassero sempre di più, è in ogni caso qualcosa di nuovo e oggettivamente affascinante.

Unbroken: storia di un uomo che non si è mai piegato

Ho letto il Libro di Laura Hillenbrand spinto dal successo avuto dall’omonimo film diretto da Angelina Jolie e candidato ai premi Oscar di quest’anno aspettandomi di trovare un libro bello ma come tanti altri che raccontano i drammatici fatti avvenuti durante la seconda guerra mondiale.
Quello che ho letto invece è molto più di questo perché l’autrice ha descritto un uomo e la sua storia con una capacità eccezionale di far immedesimare il lettore nei pensieri del protagonista. Leggendo sembra quasi infatti di crescere e soffrire come Louis Zamperini, protagonista della storia, e per rispondere alla domanda chi sia quest’uomo il libro va letto dall’inizio alla fine perché altrimenti se ne perdono pezzi decisivi.
Louis Zamperini è stato infatti un ragazzo della California che da giovane era solo e pieno di problemi. È stato un incredibile talento del mezzofondo durante il primo dopoguerra e questo lo ha portato a partecipare alle olimpiadi di Berlino del 1936, a stringere la mano a Hitler e a essere quasi ucciso dalle SS per aver rubato una bandiera nazista. È stato mitragliere per gli Stati Uniti d’America e con il suo aereo è caduto nel Pacifico a seguito di una grave avaria, ha resistito su un canotto per oltre 40 giorni vivendo di nulla e ha percorso trasportato dalle correnti oltre 3000 km nell’oceano prima di arrivare sulle coste dell’impero giapponese. È stato prigioniero di guerra per oltre due anni in diversi campi giapponesi, umiliato e continuamente picchiato dai suoi terribili carcerieri che avevano il solo scopo di eliminarne totalmente la dignità di uomo. È stato un alcolista perché nonostante la vittoria statunitense della guerra e la sua conseguente liberazione fisica dalla prigione, Louis ha vissuto anni senza essere capace di liberarsi realmente di quanto accaduto se non con l’alcool, con tutte le conseguenze che questo gli ha generato.
Fa specie pensare ancora una volta che oggi la libertà è spesso descritta solo come la possibilità di fare quello che si vuole e si pensa nei limiti del lecito (se ripensiamo ai fatti di Parigi e Dolce e Gabbana è evidente questo). La storia di questo libro mostra invece tutta la fragilità di un pensiero di questo tipo perché a Louis non è bastato uscire dai campi di prigionia e tornare a casa per essere libero!
Louis però è stato anche un uomo capace di trovare una risposta e liberarsi dai suoi problemi grazie alla Fede. Splendido il finale in cui si accennano i frutti sulla realtà generati da quella che lui stesso chiama: “la scoperta del vero se stesso”.
In poche parole in questo libro c’è tutta la storia drammatica di un uomo che non si è mai piegato di fronte alle fatiche e stando attento a ciò che gli succedeva ha sempre trovato il modo, in ultimo istante con la conversione e la scoperta della fede, di rispondere da uomo ai drammi della sua vita.
Per queste ragioni e per l’incredibile capacità narrativa dell’autrice questo libro va assolutamente letto perché non parla, come in molti dicono, solo del passato o della vicenda di un “eroe” ma ha molto da dire a tutti noi oggi.

Birdman: quando la fama non è tutto

Chiunque conosce o ha sentito parlare del nuovo nuovo film di Alejandro Gonzàlez Inàrritu e se ancora non lo avete visto fatelo perché si tratta di qualcosa di realmente eccezionale e atipico anche per il fantastico mondo del cinema.
La storia tratta di Riggan Thompson, alias Michael Keaton, ex-divo di Hollywood giunto alla notorietà come interprete del supereroe Birdman, figura che lo ossessiona e di cui non riesce in alcun modo a liberarsi. I suoi problemi sono da un lato che, invecchiato, sembra essere stato dimenticato dal grande pubblico; e dall’altro quello di una totale mancanza di ordine nella sua vita: separato dalla moglie, con una figlia appena uscita da un centro di disintossicazione e un amante fastidiosa sul set.
Non ritenendosi finito e credendo di aver ancora qualcosa da dire e da dare al pubblico americano ambisce a mettere in scena uno spettacolo teatrale a Broadway: “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?” di cui essere autore, regista e primo attore.
E’ un’idea interessante ma Riggan è totalmente ossessionato dall’ansia di emergere e di essere ricordato dal pubblico per cui fa del male a un attore che non riteneva abbastanza bravo per non farlo recitare, ma poi litiga più volte col suo folle sostituto (interpretato da Edward Norton) perché troppo bravo gli rubava la scena! Sulla stessa lunghezza d’onda ma con un’obiettivo più personale vi è la figlia di Riggan, interpretata da una splendida Emma Stone, che appena uscita da un centro di disintossicazione lavora come assistente del padre e non ambisce ad altro che non sia essere notata da lui. Più volte la troviamo seduta su una balconata come se volesse buttarsi di sotto e totalmente stanca di vivere, cosa che non fa mai perché Norton glielo impedisce. Geniale è il metodo usato dal regista per “risolvere” e allo stesso tempo “descrivere” il dramma della giovane protagonista: il gioco “obbligo-verità”. Così Norton ha dovuto dire quanto poco Emma, nonostante tutti i suoi tentativi, fosse invisibile: l’aveva notata, si era accorto che c’era e questo dà una svolta al personaggio interpretato dalla Stone che finalmente, forse per la prima volta, si è sentita amata semplicemente per quello che era.
Originale a dir poco è il finale poi perché tutto il film è una descrizione del desiderio di emergere di Riggan e ruota attorno a questo personaggio e alla fine, anche se in modo”bizzarro”, questo successo lo ottiene: la figlia gli mostra che ha ottenuto oltre 80000 follower su twitter in meno di un’ora e gli dimostra di averlo perdonato, ma evidentemente visto il finale questa “fama” al protagonista non era più sufficiente.
Se pensiamo alla realtà è quasi incomprensibile che negli ultimi anni molti divi di Hollywood come Philip Seymour Hoffman, Robin Williams, Rock Hudson e qualche anno fa Amy Winehouse si siano tolti la vita. Come è possibile? Loro hanno tutto: fama, denaro, successo…Quel loro stesso desiderio di fama e successo però lo abbiamo tutti e il rischio di vivere come Riggan lo sento molto presente nelle giornate: c’è un enorme differenza ad esempio tra lavorare cercando di farlo meglio che si può e lavorare con il solo obiettivo di “fare carriera”!
Nel finale il regista mi è sembrato fornisca un’ipotesi di risposta a questa alternativa in un dialogo tra Riggan e sua moglie prima dell’ultima scena dello spettacolo teatrale. Riggan lì dice di rimpiangere più di ogni altra cosa di essersi perso tutto nella vita, e fa lo splendido esempio di quando ha filmato la nascita della figlia invece di stare con sua moglie a vivere quel momento.
E’ forse proprio questo allora il punto: forse per accorgersi di essere amati bisognerebbe “solamente” vivere ciò che accade avendo gli occhi aperti per guardare le cose per quello che realmente sono e non per l’immagine che su di esse ci siamo fatti e costruiti.

L’Oriana: una fiction per iniziare a leggerla!

Nelle giornate di lunedì 16 e martedì 17 Febbraio la Rai ha mandato in onda una fiction su quella che probabilmente è la più nota e brillante giornalista italiana degli ultimi trent’anni: Oriana Fallaci. Sono già partite numerose polemiche su come la vita di questa donna sia stata distorta dai registi e probabilmente questi critici hanno ragione: la storia e le sue idee in certi momenti cosi duri che ha vissuto e visto (in Pakistan, Vietnam, Messico e Grecia) sono state certamente semplificate con l’evidente obiettivo di “farle capire” a un grande pubblico. E’ ragionevole pensare che non molti in Italia abbiano letto e conoscano profondamente i pensieri della Fallaci per cui la fiction della Rai è stata un buon tentativo per renderli noti.
A parte infatti una oggettiva difficoltà nel raccontare una vita cosi intensa e dura in due sole serate senza appiccicare giudizi e conclusioni affrettate è anche emerso quello che è “particolare” e “nuovo” di una figura come quella della Fallaci:
lei era una donna che si faceva colpire e toccare dai fatti che le accadevano attorno;
lei era una donna che tentava un giudizio di fronte a ciò che succedeva ma non lo appiccicava “a caso”, lo maturava andando e vivendo in luoghi di guerra ponendo davanti non la sua idea ma ciò che vedeva (il passaggio sulla guerra in Vietnam contro gli americani lo fa intuire);
lei era una che aveva chiaro il significato di libertà e per essa lottava perché “La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere”;
lei era una cosi libera da poter dire a qualsiasi uomo potente ciò che le stava più a cuore perché “ha sempre amato la vita. Chi ama la vita non riesce mai ad adeguarsi, subire, farsi comandare”;
lei era una che aveva capito che “Il grande malanno del nostro tempo si chiama ideologia e i portatori del suo contagio sono gli intellettuali stupidi”;
lei era una che aveva un occhio talmente vero sulla realtà che ha saputo anticiparne gli sviluppi: “Loro (i fondamentalisti islamici) hanno qualche cosa che noi non abbiamo ed è la passione. Hanno la fede e la passione. Nel male, in negativo, ma l’hanno. Noi non l’abbiamo più, l’abbiamo persa, la nostra forma di società ha inaridito l’animo, ha inaridito il cuore della gente. Perfino nei rapporti amorosi c’è meno passione. In quanto alla fede, nel nostro mondo è una parola quasi sconosciuta. Loro sono più stupidi di noi ma sono profondamente appassionati, dunque più vitali. Perfino la guerra, che è un atto di passione – passione in negativo, la ferocia, il sangue – , è diventata sterile, pulita. Questa mancanza di passione si riflette nella nostra vita quotidiana perché, al posto della passione, abbiamo il benessere, la comodità, il raziocinio. Tutto quello che siamo è frutto di raziocinio, non di passione. (da Accetto la morte ma la odio)”

Che la Rai abbia fatto questo lavoro su di lei è bello. Non perché siano stati fedelissimi alla sua storia e alle sue idee, ma perché ad esempio, sfruttando molte delle sue più belle citazioni, a me e a molti altri hanno messo il desiderio di iniziare a leggerla.

Storia di una ladra di libri: un film sulla guerra per bambini

Esistono centinaia di film e libri sul nazismo ma ‘Storia di una ladra di libri” (tratto dall’omonimo libro di Markus Zusak) ha la capacità di raccontare la guerra da una prospettiva nuova: quella di una bambina. Quanti film sulla guerra sono anche adatti ad essere visti dai più piccoli? Quanti di noi possono immaginare le sensazioni di una bambina costretta a dire “Heil Hitler” nonostante sappia che l’uomo a cui inneggia è la causa dei suoi mali? Usare come protagonista una bambina, Liesel, e descriverne pensieri e preoccupazioni è dunque qualcosa di nuovo.
La narrazione inizia con il viaggio di Liesel verso la sua famiglia adottiva perché la madre, comunista, è in fuga dalla Germania. Al trauma dell’abbandono si aggiunge la perdita poi del fratellino, che Liesel ha visto morire tra le braccia della madre proprio durante il viaggio verso la nuova casa. Al funerale la piccola raccoglie da terra un libro, “Il manuale del necroforo”, e lo conserva: sarà proprio questo particolare testo che, assieme all’aiuto del padre adottivo Hans, permetterà a Liesel di imparare a leggere.
Generosi e profondamente umani infatti i suoi nuovi genitori nascondono in casa Max, un giovane ebreo in fuga dalle SS tedesche. Colto e attento, Max diventa un grande amico di Liesel e la aiuta nella sua crescita e nella sua formazione spingendola ed educandola quasi a trovare le parole per raccontare il mondo che vede. Max aveva infatti chiaro che la potenza delle parole, che permettono l’esistenza dell’immaginazione ed è proprio l’immaginazione che rende sopportabile la reclusione. Anche Hitler lo sapeva e infatti in contemporanea il fuhrer ordina continuamente alle sue SS di bruciare i libri. Proprio davanti a un falò fatto per distruggere tutti i libri del paese Liesel non riesce a resistere e, andati via tutti, ne sottrae uno alle fiamme, e poi via via ne ruba altri da una biblioteca in casa di una moglie di un generale tedesco.
Senza dettagliare il racconto quella bambina sconfiggerà la violenza della guerra usando dei semplicissimi libri! La prospettiva di fare un racconto di guerra, senza togliere nulla della drammaticità dei suoi effetti, dal punto di vista di una bambina rende questa storia comprensibile da tutti, compresi i più piccoli, e lascia alla fine la sensazione che, nonostante tutto il dramma occorso alla piccola protagonista, lei vinca.
Questo film va visto perché riuscire a trasmettere un messaggio di speranza proprio da una storia cosi dura è qualcosa di oggettivamente bello e affascinante che chiunque, anche un bambino, può capire e che sarebbe bello ricordarsi sempre nelle circostanze dure in cui tutti noi siamo messi.